Se quell’atto non fosse stato falso poteva salvare la vita alla psichiatra

Le ipotesi investigative sul documento di rischio aziendale per il quale Colasanto è stato sospeso

domenica 10 novembre 2013

(Repubblica Bari)

Non è soltanto burocrazia, come l’acronimo lascerebbe intendere. Quel Dvr (Documento di valutazione del rischio) non si può catalogare tra quelle carte che per legge devono essere a posto, perché se non lo sono e succede un guaio, allora è un problema. Il Dvr avrebbe forse potuto salvare la vita di Paola Labriola. È questo che stanno cercando di appurare gli uomini della squadra mobile di Bari che dal giorno dell’omicidio della psichiatra nel centro di via Tenente Casale, dove lavorava, non hanno lasciato nulla al caso.

Così come era emerso sin dai primi accertamenti, pare ormai certo che il Documento mancasse o comunque fosse carente. Quello presentato alla polizia dieci giorni dopo l’omicidio dalla Asl era evidentemente un falso: lo ha ammesso chi lo ha firmato, il dottor Alberto Gallo, sostenendo però di essere stato costretto dal direttore generale Domenico Colasanto. Il manager ha respinto però l’accusa, sostenendo che lui per primo aveva avanzato dubbi alla Procura sull’autenticità di quel documento. In ogni caso dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per induzione in concussione il dg ha rimesso il suo mandato nelle mani del presidente della Regione, Nichi Vendola, che venerdì ha deciso di sospenderlo dall’incarico per due mesi.

Il punto è però che il Dvr mancava. Ed era proprio quel documento a poter dare una storia diversa a questa tragedia: se qualcuno ci avesse lavorato, sarebbe arrivato certamente alla stessa conclusione che denunciavano da mesi Paola Labriola e le sue colleghe. E cioè che in quel posto, in quella maniera, non si poteva lavorare. «È impensabile pensare a un posto così esposto, perché hai a che fare comunque con pazienti psichiatrici - spiega un investigatore - senza prevedere un filtraggio all’ingresso o anche soltanto la presenza di un uomo visto che la maggior parte del personale che lavorava lì era composto da donne».

Il Documento di valutazione del rischio avrebbe infatti proprio dovuto monitorare la situazione e, sulla base delle esigenze e dei pericoli, imporre una serie di precauzioni che invece non erano state prese. «Significa - commenta l’avvocato di parte civile, Michele Laforgia - che Paola aveva ragione a denunciare quelle condizioni di lavoro. Noi ora non possiamo fare altro che continuare la sua battaglia».

Altri articoli sull'argomento