Il medico non ha il diritto di curare

Condannato dal Tribunale di Termini Imerese un professionista che aveva imposto le cure a un Testimone di Geova

venerdì 07 settembre 2018

Dott-Net

Il medico non ha il diritto di curare, a prescindere dalla volontà dell'ammalato. E' la conclusione a cui è arrivato il Tribunale di Termini Imerese: presupposto di liceità della sua attività è sempre e comunque il consenso informato del paziente, che deve essere edotto, ovverosia espresso solo dopo aver ricevuto notizie complete e esaustive.

Consenso informato e valore sociale dell'individuo

Così, la  sentenza numero 465/2018 (clicca qui per scaricare il documento completo) torna sulla questione del del paziente, evidenziando che alla base di esso c'è la prevalenza del "valore sociale dell'individuo" che non può non emergere in una società ispirata al rispetto e alla tutela della persona umana. Di conseguenza a ogni paziente deve essere data la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento, ma anche di rifiutare la terapia e decidere consapevolmente di interromperla.

Il bene salute

Su questo presupposto, la relazione medico-malato deve basarsi sulla "libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte". Pertanto, se il consenso informato manca o è viziato e non vi è incapacità di manifestare la volontà né stato di necessità, il trattamento sanitario risulta invasivo rispetto al  diritto della persona di "prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare". Insomma, per il Tribunale di Termini Imerese, al paziente va riconosciuto sempre un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se la sua scelta lo esponga al rischio stesso della vita. I giudici hanno concentrato la loro attenzione sul valore del consenso informato del paziente evidenziando che alla sua base c'è la prevalenza del "valore sociale dell'individuo" che non può non emergere in una società ispirata al rispetto e alla tutela della persona umana.

A ogni paziente deve essere data la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento, ma anche di rifiutare  la terapia e decidere consapevolmente di interromperla. Su questo presupposto secondo il Tribunale la relazione medico-malato deve basarsi sulla  "libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte". Quindi se il  consenso informato  manca o è viziato e non c’è incapacità di manifestare la volontà  né stato di necessità, il trattamento sanitario è invasivo rispetto al  diritto della persona di "prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare".

Reato di violenza privata

Nel caso di specie, la vicenda riguardava il caso di una testimone di Geova che, "cosciente, lucida e nel pieno delle sue capacità", aveva rifiutato espressamente di sottoporsi a una terapia trasfusionale che, nonostante ciò, le era stata praticata su espressa indicazione del medico imputato.

Alla luce di quanto sopra visto, per i giudici si è trattato quindi di un comportamento del tutto ingiustificato, anche considerato che nel nostro ordinamento  non esiste "un soccorso di necessità cosiddetto coattivo, che appunto possa travalicare la contraria volontà dell'interessato". Al sanitario responsabile del trattamento, tale comportamento è così costato una condanna per il reato di violenza privata. "La condotta del medico – si legge nella sentenza - può essere qualificata come negligente per non essersi egli sincerato,  anche tenuto  conto  dell'annotazione  della volontà della paziente in ordine alle due ulteriori trasfusioni  e segnatamente per non avere verificato se permanesse il suo dissenso".

I giudici hanno comunque ritenuto che all’imputato potessero essere concesse le circostanze attenuanti generiche  "tenuto conto sia della sua incensuratezza sia del suo positivo comportamento processuale" e quindi ha limitato la condanna a un mese di reclusione e al pagamento delle spese processuali.

"Invero – commenta la sentenza -   la condotta tenuta dall'imputato, oltre che costituire illecito penale, costituisce anche illecito civile  nei confronti del soggetto portatore dell'interesse penalmente tutelato, poiché la lesione dell'interesse protetto dalla norma penale costituisce danno ingiusto ai sensi dell'art. 2043 c.c. L'imputato va, quindi , condannato al risarcimento dei danni subiti  dalla  parte  civile in  conseguenza  della  condotta  illecita rinviandosi, in mancanza agli atti di idonei elementi di quantificazione,  al  competente  giudice  civile  per  la  loro  completa  liquidazione".