Impiegata di un medico vince la causa Mezzo milione per 15 giorni di lavoro

Treviso, la donna era stata licenziata senza raccomandata. L'avvocato: «Nessun soldo dal medico, è nullatenente»

giovedì 06 marzo 2014

Corriere della Sera

TREVISO - Licenziata in tronco dopo appena due settimane dietro la scrivania, dovrà essere risarcita con 500 mila euro. Il tribunale di Treviso le ha dato ragione perché il suo ex datore di lavoro, un professionista trevigiano dal quale la donna era stata impiegata come segretaria, non le aveva fatto recapitare alcuna raccomandata di ritorno, come previsto per legge, al momento del licenziamento. A fare il resto ci ha pensato il tempo: al termine della causa di lavoro, durata circa 7 anni, il giudice non ha riconosciuto la validità del licenziamento, condannando il professionista a pagare stipendi e oneri previdenziali arretrati dal 2004 al 2011, con tanto di sanzioni per il ritardo, come non fosse mai successo nulla.

Mezzo milione di euro in tutto, che ora l’ex datore di lavoro, un medico trevigiano 70enne ex titolare di uno studio, dovrà versare all’ex segretaria, all’Inps (Equitalia ha presentato la sua prima cartella) e all’Inail. «Sarebbe da mandare il conto al ministero della Giustizia — insorgono le associazioni di categoria — lo Stato non può prima causare un danno e poi chiederne risarcimento». La questione però è più intricata di quel che sembra. «La causa è durata molti anni—spiega Giuliano Crescente, legale della segretaria, una trevigiana di 40 anni— anche per colpa della strategia processuale della controparte: potevano chiuderla subito con un accordo da qualche migliaia di euro. La mia assistita non era in periodo di prova, ma era in nero, e su questo la giurisprudenza parla chiaro. Se il datore di lavoro voleva licenziarla prima di tutto avrebbe dovuto assumerla regolarmente e poi avrebbe potuto farlo in modo regolare, non con un semplice «se ne vada».

La somma di 550 mila euro? Mi viene da ridere visto che al momento non abbiamo recuperato nulla, nemmeno le spese vive, perché il medico ad oggi è nullatenente ». «Volevo fare un favore a degli amici—si difende il medico — e avevo fatto venire in studio questa donna, che non aveva alcuna esperienza e fino ad allora aveva lavorato in un bar. Volevo aiutarla, ma non sapeva nemmeno usare il computer: l’ho dovuta mandare via e lei mi ha pugnalato alle spalle. Ora mi ritrovo con le cartelle esattoriali di Equitalia da pagare (105 mila euro di Inps, 25 mila di Inail, ndr), per colpa anche di una sentenza che poteva essere emessa in uno o due anni. Non ho nemmeno ricorso in appello, perché i tempi e i costi sarebbero saliti ancora». Il professionista ora vorrebbe intraprendere un’azione legale contro il suo ormai ex avvocato, che a parer suo avrebbe mal gestito la pratica. E’ polemica però sui tempi della giustizia civile. «Ci sono ritardi intollerabili causati dalla mancanza di regole certe e di organico — tuona il presidente di Confartigianato Treviso, Mario Pozza —. Non è un caso che in Italia servano 1550 giorni per arrivare ad una sentenza per una causa di lavoro, mentre in Europa ne bastano 550. Basterebbe una regola semplice: dopo un anno dall’avvio del contenzioso, il tribunale dovrebbe dare una prima risposta in modo da bloccare contributi e sanzioni, che altrimenti continuano ad alimentare un sistema la cui causa è lo stesso sistema giustizia».

«I tempi lunghi della giustizia civile sono riconosciuti dagli stessi addetti ai lavori — aggiunge il presidente di Unindustria Treviso, Alessandro Vardanega —. Servono nuove regole, come abbiamo detto all’onorevole Michele Vietti, vicepresidente del Csm, ma anche organici adeguati al territorio. Altrimenti non c’è più certezza del diritto». «C’è un problema giustizia — aggiunge il segretario regionale della Cgil, Emilio Viafora—ma i datori di lavoro devono smetterla di puntare al logoramento dei propri dipendenti, portando avanti le cause per diversi anni, e trovare degli accordi. In troppi cercano di fare i furbi, serve un atto di responsabilità». «Queste situazioni purtroppo sono comprensibili se a gestire 3 mila fascicoli c'è solo un giudice del lavoro», commenta il presidente del Tribunale Aurelio Gatto, che già più volte ha sottolineato le difficoltà della giustizia trevigiana. La sezione dei giudici del lavoro, che in pianta organica prevede 3 unità, funziona dall’inizio dell’anno con un unico giudice. Il presidente ha anche tentato la carta di richiedere da un altro tribunale distrettuale un giudice in coassegnazione: «Ma non ho avuto nemmeno risposta. A breve dovrebbe arrivare il secondo giudice, ma siamo comunque pochi. Inevitabile quindi che le cause durino ben oltre i tempi tecnici previsti».