lo, malata e con il feto a rischio così mi hanno negato l'aborto

La denuncia di una donna che non ha potuto assumere la pillola: da un ospedale all'altro pagina

giovedì 21 dicembre 2017

Repubblica Bari
L'odissea delle donne per un'interruzione volontaria della gravidanza purtroppo è fatto abbastanza ordinario. Ma la straordinarietà della lettera-denuncia di questa ragazza barese che pubblichiamo omettendo le generalità per tutelamela privacy,sta nell'impotenza degli ospedali e della burocrazia di fronte alla malattia della donna e dei gravi rischi per il feto. A partire dai telefoni muti. Dopo avere ricevuto la denuncia, abbiamo contattato il Policlinico di Bari, che ha riattivato il numero verde «effettivamente irraggiungibile per problemi tecnici», ha confermato la direzione. Ecco la storia che la ragazza ci ha affidato. Guardo la doppia linea rossa e una voce mi rimbomba nella testa. «Non facciamo scherzi, niente gravidanze non programmate: con tutti i farmaci che prendi il bambino rischia troppo». Chiudo gli occhi, scuoto la testa. Li riapro. Il test comprato in farmacia non lascia spazio a dubbi. Sono incinta, e non ho neppure il coraggio di dirlo alla mia dottoressa. Lei, la mia malattia, mi accompagna da quando sono nata. Potrei trasmetterla all'esserino che ha trovato casa in me, ma questo è il male minore: io ci convivo con le difficoltà, potrà farlo anche lui e provare a essere febee. «Il problema è che con la tua terapia il rischio di malformazioni gravi per il feto è altissimo», mi ripete la dottoressa, dopo essersi consultata coi colleghi. «La scelta però è tua», dicono tutti. Ma io di alternative ne vedo poche. Per abbattere al massimo i pericoli per il bimbo, dovrei diminuire gradualmente la terapia almeno un anno prima. Tre farmaci e dieci pillole al giorno mi bombardano il sangue, e non mi hanno permesso neppure di usare la pillola anticoncezionale. «Se vorrai fare la mamma -mi hanno sempre detto i medici- dovremo affrontare un percorso lungo e concordato, nessuna improvvisazione sulla pelle del bambino». Ecco, appunto, non ho scelta. Una mamma malata che deve prendersi cura di un bimbo gravemente malato, è una cosa che può succedere se lo decide la sorte. Se si può evitare, però, è meglio per tutti. Metto a tacere l'istinto, spengo il cuore e accendo il cervello. Mi aspetto comprensione e cerco un posto dove essere coccolata, per non farmi prendere dalla rabbia e dallo sconforto. Cerco su Internet i centri dove potere fare quello che devo fare. Devo. I forum delle mamme e vecchi articoli di giornale mi riportano il numero verde del Policlinico di Bari, attivato nel 2010 per la pillola abortiva. C'è scritto che la procedura è meno invasiva e fisicamente meno traumatica per le giovani donne. 800893999. «Fastweb, servizio non raggiungibile, chiami più tardi». Ci provo per tre giorni, proprio quelli indicati nelle informazioni trovate on line. Nulla da fare, il telefono squilla a vuoto, cade la linea, il numero risulta inattivo. Chiamo in reparto, mi consigliane di chiedere alla portineria. Dalla portineria mi rimandano in sala parto. «Signora, e che c'entra la sala parto con l'aborto?». La beffa. Desisto. Scopro di essere alla decima settimana, troppo tardi per la procedura farmacologica, possibile solo fino alla settima. L'ansia sale, ne ho appena altre due per l'interruzione volontaria di gravidanza, altrimenti sarà troppo tardi. Una voce dall'altra parte della cornetta mi suggerisce, «da donna a donna», di evitare il Policlinico perché il raschiamento in day hospital non si fa, dovrei ricoverarmi per tre giorni e non è facile. Provo altrove. Una mia amica mi suggerisce di rivolgermi al centro di Pianificazione familiare e percorso nascita di Triggiano. «E' un ambiente accogliente, non sono invadenti e non ti fanno sentire sbagliata», mi racconta. La responsabile del centro si dimostra subito disponibile, ascolta il mio caso e s'informa sulla patologia. Sono oberati dalle domande, ma un posto me lo troverebbero pure nel loro ambulatorio. Se non fosse che per tutti i farmaci che prendo devo procedere in ospedale, in una struttura h 24 che possa assicurarmi assistenza continua per più di sei ore. Penso al Di Venere: l'unica ginecologa non obiettrice è sempre lei, la dottoressa di Triggiano. Unica per tutto l'ospedale. Mi dice che può provare a organizzarsi con l'anestesista (anche per loro dobbiamo trovare i pochi non obiettori), cambiando i turni per farli coincidere e garantirmi l'equipe di cui ho bisogno. Serve qualche giorno, però. Inevitabile. Mi prende il panico, ringrazio e cerco altro. A Triggiano ci tornerò dopo -mi dico- perché possono aiutarmi con la contraccezione, visto che forniscono gratuitamente le spirali adatte alle ragazze e alle donne a rischio come me. Anche per il San Paolo ci vuole qualche giorno. Forse una settimana solo per la prima visita. Sono pieni, i medici non obiettori pochi (qualcuno li aiuti), i centri sempre gli stessi e le donne disperate tante. Con me ci sono quelle che le malformazioni le hanno già scoperte, certificate ma trovano altrove solo "no grazie, la mia coscienza non me lo permette". Mi prende una fitta al cuore. Serve una relazione della mia dottoressa. Ho ancora più paura: e se poi qualcosa non va? Altro tempo utile perso. Un ultimo tentativo. Le cliniche private. Le sedute di fine anno sono piene. Spiego il mio caso, racconto di tutti i rischi e le prescrizioni. Spero in un'eccezione, vista l'emergenza. Eccezione accolta, per fortuna. Sono in barella, non so neppure trovare le parole giuste per ringraziare. Chiudo gli occhi, esausta. Cercavo un abbraccio, mi spetta di diritto. Ho affrontato una corsa a ostacoli.