Cassazione: negare cure a paziente ricusato è rifiuto di atti d'ufficio

Pur con la ricusazione, vige l'obbligo di assistenza per ulteriori 15 giorni

martedì 01 agosto 2017



Doctor 33

Mai "sbattere fuori" il paziente ricusato, potrebbe essere un grave reato. Le implicazioni di una sentenza della Cassazione penale investono da vicino i medici di famiglia. Il caso: una donna malata di cancro al seno e in terapia medica, ai ferri corti con il suo medico di famiglia, si reca da lui per una prescrizione. Il medico le ha comunicato da qualche giorno di averla ricusata. Ha i locali dello studio collegati direttamente all'appartamento dove vive, lei entra, il dottore sosterrà che è "fuori orario", testimoni riferiranno il contrario. Il medico la respinge con durezza e dandole uno strattone, la donna lo denuncia per violenza privata, per il medico lei ha violato il domicilio, si finisce in appello dove la corte condanna il medico a 7 mesi di reclusione ma aggiungendo un altro reato, il rifiuto di atti d'ufficio.

 La Cassazione ribadisce la condanna con sentenza 35233/2017, recente: il medico sapeva che non vi possono essere interruzioni di cura nella terapia prescritta dallo specialista per il trattamento medico del tumore della mammella per il quale la donna si è rivolta a lui. Non importa nemmeno se (dal punto di vista del medico) la paziente fosse fuori orario né se (dal punto di vista della paziente) non fossero scaduti i 15 giorni previsti dal contratto tra la comunicazione della ricusazione e la sua effettività: si chiedeva una terapia che non può subire interruzioni.


Astraiamoci dal caso e prendiamo due spunti "estremi": paziente ricusato e insistente contro medico esplicito fino all'ineducazione. Segretario della Fimmg negli anni Novanta e presidente dell'Ordine dei Medici di Firenze, nonché esperto di temi etici, Antonio Panti ammette che «al di là dell'introdursi in casa, che è un illecito da valutare a latere da parte del giudice, in certe situazioni antipatiche il medico deve sempre tenere la deontologia in primo piano. Negli Stati Uniti già nel 1978 si teorizzava come far fronte agli "hateful patients".

 Nella realtà della medicina di famiglia, non ci sono pazienti o medici odiosi, ma situazioni che si generano, "tunnel" dai quali è interesse di entrambi uscire. E' buona norma che il medico ricusi il paziente con cui sente di non andare d'accordo: una disposizione negativa di una delle due parti nel dialogo rischia d'incidere negativamente sui comportamenti di cura. Sarà un caso su mille, ma quel paziente va indirizzato ad altro medico nel suo stesso interesse».
«Una volta ricusato l'assistito però - aggiunge Panti - il medico di famiglia ha innanzi tutto un obbligo contrattuale di assisterlo ancora per 15 giorni dalla comunicazione. E al di là dei tempi del contratto, ha un obbligo morale di prestare assistenza a una persona che a suo tempo si è affidata a lui, anche se l'affidamento è finito.

Bisogna sempre valutare la richiesta di una persona assistita che si presenta dopo esser stata ricusata: se è obiettivamente differibile - la prescrizione di statina, di antipertensivo - si può rinviare al nuovo medico, con educazione e fermezza; se però si pone il dubbio di un'urgenza, bisogna prescrivere il medicinale: ma su ricetta bianca, altrimenti si correrebbe il rischio di gravare sul Servizio sanitario nazionale illegittimamente. I pazienti con malattia grave in atto potrebbero aver bisogno di cure legate alla loro patologia, con una certa urgenza, e vanno prescritte; dirò di più, anche ove pazienti ricusati con patologia grave chiedessero qualcosa di "futile" potrebbe per assurdo essere più facile per il medico "renitente" ritrovarsi accusato per un'omissione relativa alla patologia più grave, che per il medico accusare il paziente di stalking o altro. Quindi consiglio grande attenzione sul piano professionale, da estendere alla possibilità che l'Asl contesti eventuali prescrizioni indebite, evitabile appunto con la ricetta bianca, che mette in tranquillità il cosiddetto "terzo pagante"».


Mauro Miserendino