NAO - warfarin, emorragie gastroenteriche da valutare meglio

I NAO nel 20-25% dei soggetti trattati mostrano un aumentato rischio di sanguinamento gastroenterico

martedì 24 maggio 2016

Doctor 33

«A fronte di un'efficacia per lo meno pari a quella del più tradizionale warfarin e di un profilo di tollerabilità e sicurezza di gran lunga migliore in quanto associati a una notevole riduzione di rischio emorragico (specie cerebrale, dal 35% al 64%), i nuovi anticoagulanti orali (Noac) in alcuni pazienti - si calcola intorno al 20-25% - mostrano un aumentato rischio di sanguinamento gastroenterico (sempre rispetto all'uso di warfarin) e dunque è fondamentale cercare di capire chi sono tali pazienti e se è possibile prevenire tale eventualità».

Lo ha affermato Giovanni Di Minno, docente di Clinica Medica dell'Università Federico II di Napoli, in una tavola rotonda sugli "Aspetti clinici dei Noac" durante il recente convegno "Innovazione in ambito cardiovascolare e nella ipercolesterolemia", organizzato nel capoluogo campano dalla Società italiana di farmacologia (Sif). «In realtà esiste una serie di possibilità, intese come caratteristiche cliniche, che permettono di identificare da subito queste persone a maggiore rischio di sanguinamento» spiega Di Minno. «Essenzialmente sono pazienti che hanno già avuto emorragie, che sono già in trattamento per un'ulcera peptica e quindi sono già in trattamento con inibitori di pompa protonica, sono persone con ipertensione arteriosa (che è un noto fattore di rischio emorragico in risposta a una serie di farmaci attivi sull'emostasi) oppure che hanno una broncopneumopatia cronica enfisematosa». C'è poi un secondo punto da tenere presente, sottolinea il clinico. «Come è noto, le emorragie del tratto gastroenterico si distinguono in emorragie del tratto gastrointestinale alto (fondamentalmente gastrico) e del tratto gastrointestinale basso (sostanzialmente intestinale)» ricorda Di Minno. 

«Ebbene, con il warfarin queste emorragie sono per il 75% alte e per il 25% basse, al contrario di quello che avviene con alcuni dei Noac, dove con due molecole gli eventi emorragici sono per la maggior parte alti e in altre due per la maggior parte bassi». Perché è importante questa distinzione? «Perché le emorragie del tratto gastrointestinale alto sono sensibili agli inibitori di pompa protonica, farmaci comunemente utilizzati per l'ulcera peptica» risponde Di Minno. «Questa è un'altra informazione importante per prevenire questi eventi emorragici. Ricapitolando: da un lato abbiamo l'identificazione dei pazienti più a rischio, dall'altro in almeno la metà dei casi abbiamo la possibilità di usare gli inibitori di pompa protonica. Inoltre, qualora l'emorragia abbia luogo, è stata recentemente messa a punto una serie di interventi (antidoti) che servono specificamente a impedire o controllare queste emorragie». C'è ancora un aspetto che Di Minno ritiene opportuno evidenziare. «Si deve anche tenere conto del fatto che, al di fuori degli studi clinici controllati, nell'utilizzo di ogni giorno i registri hanno dimostrato che, in fondo, questo rischio di emorragie gastroenteriche non è poi così alto come ci si aspettava. Tutto questo tranquillizza il medico sull'utilizzo di questi nuovi farmaci, sulla loro efficacia e sulla loro sicurezza». Il clinico mette in risalto un ulteriore dato che richiede estrema attenzione da parte del prescrittore. 

«Il warfarin, per sua natura, ha una serie di interazioni con vari farmaci ed erbe medicinali mentre i Noac hanno scarsissime interazioni, il che significa che dando un Noac si hanno altissime probabilità di sapere che il dosaggio prescritto rimarrà immodificato e non sarà né potenziato né diminuito nel proprio effetto dall'utilizzo di altri farmaci o di erbe medicinali o di cibo» afferma. «Questo aspetto è ovviamente qualcosa che va molto ben considerato. Dobbiamo peraltro tenere a mente che i Noac non sono impiegabili in tutte le indicazioni tradizionali del warfarin» precisa «come per esempio nei pazienti con valvole meccaniche, nei pazienti con predisposizioni congenite alla trombosi (trombofilia congenita) - anche se qui ci sono vari dubbi e molti studi in corso - oppure nei pazienti che hanno sindromi autoimmuni come quella da anticorpi antifosfolipidi». 

Resta il noto problema di base del warfarin, rileva Di Minno, «ossia la difficoltà del monitoraggio e la necessità di imporre al paziente indagini laboratoristiche, condotte ogni 7-10 giorni, con l'obiettivo di verificare se l'anticoagulazione è corretta con la misurazione dell'Inr, mentre ciò non è indispensabile con questi nuovi farmaci: oggi basta per alcuni di questi una clearance della creatinina e, suggerirei, anche una ricerca di sangue occulto nelle feci con l'obiettivo di scongiurare il problema già citato». Questo semplifica la questione in modo notevole. «D'altra parte» puntualizza Di Minno «ciò può diventare uno svantaggio perché è chiaro che l'aderenza del paziente alla terapia a questo punto viene a scendere automaticamente, a meno che non si riescano a sistemare una serie di controlli interni che consentano al clinico di essere più tranquillo». Per esempio? «L'utilizzo dello stesso personale infermieristico - come avviene presso alcune nazioni - che puntualmente rivaluta l'aderenza all'utilizzo di questi farmaci» risponde Di Minno. «Un sistema che diventa anche un modo intelligente, innovativo e soprattutto aperto alla integrazione delle differenti componenti del mondo sanitario nell'utilizzo di questi farmaci. Devo dire» aggiunge «che in realtà i registri dimostrano un'aderenza alla terapia con i Noac superiore a quella con warfarin». Nel complesso, conclude il clinico, c'è però molto da fare in questo settore e tantissimo riusciremo a capire nei prossimi anni riguardo ai vantaggi e agli eventuali svantaggi di questi nuovi farmaci.


Arturo Zenorini