Scoperto l’interruttore del grasso. Obesità: rivoluzione nelle cure

Tutto è controllato dal gene FTO, che agisce sui progenitori degli adipociti.

giovedì 20 agosto 2015

Quotidiano Sanità

Individuato negli USA il meccanismo fondamentale alla base dell’obesità, una specie di interruttore che stimola gli adipociti a mettere da parte le riserve di grasso oppure a bruciarle. Tutto è controllato dal gene FTO, che agisce sui progenitori degli adipociti. Già partita la corsa per mettere a punto nuove terapie di genome editing. I risultati sul NEJM.

20 AGO - La pandemia di obesità interessa almeno 500 milioni di persone nel mondo e non accenna a frenare, portandosi dietro un gravoso fardello di diabete, malattie cardiovascolari e tumori. Per questo si moltiplicano gli sforzi da parte della comunità scientifica per trovare una spiegazione al fenomeno, sulla base della quale costruire una nuova generazione di trattamenti.
 
I tentativi terapeutici fatti negli ultimi decenni si sono rivelati infruttuosi, quando non deleteri. Per questo sta destando grandi entusiasmi uno studio pubblicato oggi sul New England Journal of Medicine, a firma di ricercatori di due delle più prestigiose università del mondo, il MIT e l’Harvard di Boston.
 
Gli autori hanno in pratica individuato un nuovo meccanismo, una specie di scambio o di interruttore, che induce gli adipociti (le cellule del grasso) a immagazzinare oppure a bruciare le riserve di grasso, influenzando così il guadagno o la perdita di peso. La scoperta è stata fatta andando ad analizzare le attività cellulari regolate dai geni dell’obesità. 
 
“Tradizionalmente – riflette Manolis Kellis, professore di scienze dei computer e membro del MIT's Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory (CSAIL) e del Broad Institute – l’obesità è stata sempre considerata come il risultato di uno squilibrio tra la quantità di cibo che ingeriamo e quanta attività fisica facciamo. Questa visione tuttavia finisce con l’ignorare completamente l’influenza della genetica sul metabolismo di ciascun individuo”.
 
Il codice genetico segreto dell’obesità.La regione del DNA che risulta più intimamente correlata all’obesità è il gene FTO che è stato oggetto di studi approfonditi, sin dal momento della sua scoperta, risalente al 2007. La più forte associazione genetica con l’obesità si trova in una regione inespressa del gene FTO e contiene 89 varianti comuni nello spazio di circa 47.000 nucleotidi. La variante che conferisce il ‘rischio obesità’ è presente nel 44% degli individui di origine europea.
Finora tuttavia nessuna ricerca era riuscita ad individuare i meccanismi in grado di spiegare come le differenze genetiche, presenti a livello di questa regione nei diversi individui, potessero contribuire o meno a determinare l’obesità.
 
La scoperta: come funziona il gene dell’obesità.  “Molti degli studi condotti in questi anni – commenta il primo autore dello studio, Melina Claussnitzer, CSAIL, Beth Israel Deaconess Medical Center e Harvard Medical School – hanno cercato di capire se ci fosse un collegamento tra la regione FTO e i circuiti cerebrali coinvolti nel controllo dell’appetito o nella propensione a svolgere attività fisica. Le nostre ricerche hanno invece rivelato che questa regione agisce sulle cellule progenitrici degli adipociti, in modo completamente indipendente dal cervello.”
 
Per riuscire ad individuare quali fossero le cellule influenzate dalla regione di DNA associata all’obesità, gli autori dello studio, con pazienza certosina, sono andati ad esaminare gli ‘interruttori’ genetici di oltre 100 tra tessuti e tipi di cellule, analizzando le informazioni del progetto Roadmap Epigenomics, fino ad individuare l’interruttore principale a livello delle cellule progenitrici degli adipociti. In questo modo sono riusciti a comprendere come le differenze genetiche presenti nei vari individui fossero in grado di influenzare i ‘magazzini’ del grasso.
 
Lo studio è stato condotto su campioni di tessuto adiposo prelevati da soggetti europei in buona salute, portatori sia della versione ‘a rischio’, che della versione ‘non a rischio’ del gene dell’obesità. In questo modo, i ricercatori americani sono giunti alla conclusione che la versione ‘a rischio’ va ad ‘accendere’ una regione del DNA nelle cellule progenitrici degli adipociti, che a sua volta attiva due geni: IRX3 e IRX5.
 
Successivi esperimenti hanno portato a dimostrare che IRX3 e IRX5 agiscono come interruttore generale della termogenesi, ovvero di quel processo che permette agli adipociti di bruciare le loro riserve di grasso per produrre calore, disperdendo così l’energia del grasso, anziché immagazzinarla.
 
Obesi o magri: la differenza sta in un dettaglio. La termogenesi è un processo che può essere innescato dagli sforzi fisici, dalla dieta o dall’esposizione al freddo e si verifica sia nel grasso bruno, ricco di mitocondri e associato ai muscoli, che negli adipociti beige, associati agli adipociti bianchi, che fungono da deposito di grasso.
 
“I primi studi sulla termogenesi – ricorda Claussnitzer - si sono concentrati soprattutto sul grasso bruno, importantissimo nel topo, ma praticamente inesistente nell’uomo adulto. Questo nuovo pathway invece controlla la termogenesi a livello delle riserve di grasso bianco,quelle più rappresentate e la sua associazione genetica con l’obesità sta ad indicare il suo ruolo nell’influenzare il bilancio energetico globale nell’uomo”.
 
E’ racchiuso in una dettaglio minuscolo, quasi insignificante, nello spazio di appena un nucleotide, la differenza tra l’essere obesi o magri. Negli individui a rischio, una base di tiamina è rimpiazzata da una base di citosina in una regione sensibile del DNA; questa sostituzione fa saltare la repressione della regione di controllo e trasforma IRX3 in IRX5. E’ sufficiente questo per spegnere la termogenesi e per fa sì che il grasso, anziché bruciare sul fuoco del metabolismo, finisca tutto impacchettato e immagazzinato per bene negli adipociti, facendo imbizzarrire l’ago della bilancia.
 
Le ricadute sul trattamento dell’obesità.Fin qui le brutte notizie. Ma i ricercatori guardano al futuro, che sembra quasi fantascienza. Gli avanzamenti tecnologici attuali, come il sistema CRISPR/Cas9, consentono di intervenire a livello del DNA, permettendo di modificarne anche piccolissime sequenza. Sfruttando questa tecnica gli scienziati americani sperano di riuscire a trasformare i pre-adipociti umani ‘modello-obeso’, in quelli ‘modello-magro’. Sostituire una singola base azotata (la citosina in timina) negli individui a rischio, permetterebbe infatti di ‘spegnere’ IRX3 e IRX5 e quindi di ripristinare un livello di termogenesi a livelli non rischiosi, ‘spegnendo’ al contempo i geni deputati all’immagazzinamento del grasso.
 
“Essere riusciti a individuare la variante responsabile dell’obesità – sostiene Kellis - potrebbe aprire la strada ad interventi sul genoma delle cellule somatiche, che rappresenta un’ipotesi di trattamento per i soggetti portatori dell’allele a rischio. Ma ancora più importante è la scoperta dei circuiti cellulari sottesi all’obesità; questo potrebbe consentirci di intervenire su questo interruttore generale, per contrastare i fattori che contribuiscono all’obesità, siano questi ambientali, di stile di vita o genetici”.
 
In un ulteriore esperimento, i ricercatori americani hanno dimostrato di poter manipolare questo nuovopathway per cancellare  il ‘marchio di fabbrica’ dell’obesità, sia nelle cellule umane, che in quelle di topo. L’alterazione dell’espressione di IRX3 o di IRX5 nelle cellule progenitrici degli adipociti ad esempio ha consentito di far passare la cellula da un pattern adipocita bianco, deputato all’immagazzinamento delle riserve energetiche sotto forma di grasso, ad un pattern adipocita beige, del tipo ‘brucia-energia’.
 
Analogamente, l’inibizione di IRX3 negli adipociti di topi, ha portato ad alterazioni drammatiche a carico del metabolismo generale dell’organismo, portando ad una riduzione del peso degli anni e all’assottigliamento di tutti i principali depositi di grasso, a prescindere dal fato che l’animale fosse nutrito con una dieta ricca di grassi. “Questi animali – afferma Claussnitzer – erano il 50% più magri dei controlli e non ingrassavano anche se nutriti con una dieta piena di grassi. Al contrario, dissipavano più energia, anche durante il sonno e questo suggerisce una trasformazione drammatica del loro metabolismo”.
 
“Manipolando questo pathway – conclude Kellis - saremo un giorno in grado di passare dalla modalità ‘immagazzina-energia’, ad un programma di dissipazione della stessa, sia a livello cellulare che di tutto l’organismo.”
 
Questo studio accende dunque una grande speranza. Quella di aver finalmente imboccato la strada maestra per la cura dell’obesità. E i trattamenti del terzo millennio potrebbero passare per il genome editing.
 
Maria Rita Montebelli