Pretendere dal medico un certificato per finta malattia è violenza a pubblico ufficiale

Malattia: reato costringere il medico di base a rilasciare certificati falsi.

giovedì 25 agosto 2016

SOLE 24 ORE SANITA': Costringere il medico di famiglia a rilasciare un certificato attestante una malattia inesistente è reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale: basta una qualsiasi coazione morale o minaccia indiretta, purché idonea a coartare la libertà di azione del medico. Lo ha stabilito il tribunale di Trento, sezione penale, con la sentenza 3 maggio 2016 n. 346.

Nel caso di specie, il dottore riteneva non diagnosticabili più di cinque giorni di malattia, mentre la paziente insisteva per ottenerne almeno 15, riuscendo nel suo intento grazie all'intervento minaccioso del compagno nei confronti del medico.

LA LEGGE PER TUTTI:

Malattia: reato costringere il medico di base a rilasciare certificati falsi.

 

Pretendere dal medico di famiglia, con ricatti o minacce, il rilascio un certificato per finta malattia, integra il reato di violenza a pubblico ufficiale. Questo perché, secondo una sentenza recente del tribunale di Trento [1], il medico di base, nel momento in cui rilascia i certificati medici, è un pubblico ufficiale. Pertanto, ogni costrizione o violenza nei suoi riguardi è “aggravata” per via del ruolo e della funzione da questi ricoperta.

Secondo la sentenza in commento, costringere il medico di famiglia a rilasciare un certificato attestante una malattia inesistente è reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale. Non è necessaria una minaccia diretta o personale – come può essere, ad esempio, il prospettare una ritorsione o una violenza fisica – ma è sufficiente l’uso di qualsiasi costrizione, anche solo morale, oppure una semplice minaccia indiretta, purché sia idonea a coartare la volontà del medico. Ad esempio, il mettersi a gridare e a sbattere i pugni sul tavolo può integrare quella minaccia sufficiente a far scattare il reato.

Nel caso di specie, un dottore, dopo aver sottoposto a visita una paziente vittima di un incidente, riteneva che fosse sufficiente diagnosticare solo cinque giorni di malattia; al contrario, la paziente insisteva per ottenerne almeno 15 e, a tal fine, dopo essersene andata, faceva ritorno nello studio medico accompagnata dal compagno, il quale, con comportamento minaccioso nei confronti del medico, sbatteva i pugni sulla scrivania, gridando che la compagna “(aveva) bisogno di due settimane di malattia”.


LA SENTENZA


Tribunale di Trento – Sezione penale – Sentenza 3 maggio 2016 n. 346

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TRENTO

II Tribunale, in composizione monocratica, presieduto dal Giudice dr. ENRICO BORRELLI alla pubblica udienza del 30.03.16 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA

nel procedimento penale

CONTRO

Po.Iv., nt. (…) a Mezzolombardo (TN) ed ivi residente in via (…) – ivi elettivamente domiciliato difeso d’ufficio dall’avv. Al.Po. del foro di Trento, con studio in Trento via (…)

Sa.Ci., nt. il (…) a Trento e residente a Mezzolombardo (TN) in via (…) – ivi elettivamente domiciliata – difeso d’ufficio dall’avv. Al.Po. del foro di Trento, con studio in Trento via (…)

LIBERI ASSENTI

IMPUTATI

In ordine ai reati di cui agli artt. 110 e 336 c.p., perché in concorso tra loro, si presentavano presso lo studio medico nell’ambito (…) e, introducendosi con la prepotenza e la forza all’interno dell’ambulatorio, minacciavano Mu.Si. – medico di famiglia della Sa. – (materialmentel’atteggiamento intimidatorio era assunto da Po.Iv. il quale si poneva all’impiedi davanti al tavolo della dottoressa e, urlando, vi sbatteva i pugni), costringendola a rilasciare alla paziente un certificato medico attestante una relativa malattia di giorni quindici (malattia non effettivamente riscontrata).

Per il solo Po.Iv. con recidiva infraquinquennale e reiterata ex art. 99 co. 1, 2 n. 2 e co. 4 c.p. Nel quale è parte offesa: Mu.Si., nt. (…) e residente a Lavis in via (…)

A seguito di citazione diretta ex art. 550 c.p.p, Po.Iv. e Sa.Ci. erano tratti in giudizio innanzi al Tribunale di Trento, in composizione monocratica, per rispondere dei reato in rubrica.

Esaurita l’istruttoria dibattimentale, all’udienza dei 30,3.16, le parti concludevano come in epigrafe ed il giudice emetteva il dispositivo, letto in udienza.

Partecipazione al processo (l. 67/14). Il processo è stato celebrato in assenza degli imputati, ex art. 420 bis co. 2 cpp (nel testo introdotto dall’art. 9 legge 67/14), per esservi stata elezione di domicilio.

Merito, Dall’istruttoria dibattimentale è emerso: che la Sa. si presentava dal suo medico di famiglia per farsi rilasciare un certificato medico; che il medico, a fronte dei sintomi descritti dalla paziente, riteneva non fossero diagnosticabilipiù di 5 gg. di malattia; che la Sa. insisteva e protestava, volendo ottenere una certificazione di gg. 15 di malattia. È inoltre emerso che la Sa., uscita dall’ambulatorio, nei corridoi minacciava di far intervenire qualcuno per indurre il medico ad emettere il certificato (teste Vl.); che in effetti dopo poco sopraggiungeva il di lei compagno Po.Iv.; che i due entravano nuovamente nell’ambulatorio con un atteggiamento minaccioso; che, in particolare, il Po. sbatteva i pugni sulla scrivania dicendo che la compagna “(aveva) bisogno di due settimane” di malattia; che la dr.ssa Mu. era così costretta al rilascio del certificato, con la precisazione che da quel momento il loro rapporto si sarebbe interrotto.

In relazione alle funzioni esercitate (rilascio di certificazione medica), è da ritenere che la dr.ssa Mu. al momento dei fatti fosse qualificabile come pubblico ufficiale. Con riferimento al contestato delitto di cui all’art. 336 c.p., si è osservato che ai fini della sua integrazione “non è necessaria una minaccia diretta o personale, essendo invece sufficiente l’uso di qualsiasi coazione, anche morale, ovvero una minaccia anche indiretta, purché sussista la idoneità a coartare la libertà di azione del pubblico ufficiale” (Cass. Sez. 6, n. 7482 del 03/12/2007 – dep. 19/02/2008, Di Prima, Rv. 239014) eche “ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 336 cod. pen., l’idoneità della minaccia posta in essere per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri deve essere valutata con un giudizio “ex ante”, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto, con la conseguenza che l’impossibilità di realizzare il male minacciato, a meno che non tolga al fatto qualsiasi parvenza di serietà, non esclude il reato, dovendo riferirsi alla potenzialità costrittiva del male ingiusto prospettato. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto penalmente rilevanti frasi intimidatorie pronunciate in stato di ebbrezza e riferite alla prospettazione di un male futuro benché temporalmente collegato ad un momento in cui l’effetto dell’alcool sarebbe cessato” (Cass. Sez. 6, n. 32705 del 17/04/2014 – dep. 23/07/2014, Co., Rv. 260324).

Nel caso in esame sussiste l’idoneità delle condotte in concreto tenute da entrambi gli imputati a coartare la libertà di azione del P.U. La dottoressa, infatti, subito dopo i fatti si presentava “visibilmente scossa, impaurata” e “chiedendole cosa fosse accaduto ansimava, quasi come se le mancasse il respiro” (teste Ag.Gr., p. 21 sten.); la stessa p.o., ha riferito di aver temuto per la propria incolumità(p. 8 sten.), di essersi spaventata e di aver rilasciato il certificato così come preteso dagli imputati per fare in modo che questi lasciassero quanto prima lo studio medico.

Entrambi gli imputati sono da ritenere colpevoli per l’ascritto reato. In particolare, oltre al materiale autore della condotta (Po.), v’è responsabilità della Sa. la quale ha chiamato il Po. per l’espressa finalità di ottenere l’intimidazione della dottoressa al fine del rilascio del certificato medico.

Provato l’elemento oggettivo del reato, risulta integrato in capo agli odierni imputati anche l’elemento soggettivo, da individuarsi nella coscienza e volontà di usare la minaccia al fine di costringere il p.u. a compiere un atto contrario ai propri doveri.

Ex art. 133 c.p. si stima congrua la pena così commisurata:

– posizione Po., pena base mesi 6 di reclusione;

– posizione Sa., pena base mesi 6 di reclusione; diminuzione per la concessione delle attenuanti generiche (incensuratezza) a mesi 4 di reclusione.

Con riferimento al Po. va esclusa la recidiva; essa è da considerarsi facoltativa (Cass. 12/01/2012 n. 4969) e dagli elementi in atti la condotta non appare sintomatica né di devianza né di perdurante insensibilità ad ogni spinta criminorepellente, alla luce di Cass. SU35738/10.

L’incensuratezza della Sa. induce a positiva prognosi, con concessione dei doppi benefici. Per Po., i precedenti escludono la concessione di attenuanti generiche e di benefici.

Il termine per il deposito della sentenza è fissato in gg. 40 atteso il numero complessivo dei processi definiti.

(La presente sentenza è stata redatta in collaborazione con il dr. Lu.Gr., tirocinante ex art. 73 d.l. 69/13 convertito nella legge 98/13).

P.Q.M.

Visti gli artt. 533 – 535 c.p.p.,

dichiara entrambi gli imputati colpevoli del reato ascritto e li condanna alle seguenti pene:

Po.Iv., esclusa la recidiva, alla pena di mesi 6 di reclusione; spese e tasse;

Sa.Ci., concesse le attenuanti generiche, alla pena di mesi 4 di reclusione; spese e tasse; pena sospesa; non menzione;

motivazione gg. 40.

Così deciso in Trento il 30 marzo 2016. Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2016.