Appropriatezza prescrittiva (Doctorsite)

La previsione legislativa non può precludere al medico la possibilità di valutare il singolo caso sottoposto alle sue cure

martedì 12 dicembre 2017

Doctorsite

Ritorniamo sul tema dell’appropriatezza prescrittiva alla luce di una recente sentenza della Corte Costituzionale, la n. 169 del 2017 per affermare ancora una volta,  che la previsione legislativa non può precludere al medico la possibilità di valutare, sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, il singolo caso sottoposto alle sue cure, individuando di volta in volta la terapia ritenuta più idonea ad assicurare la tutela della salute del paziente.

Alla luce di tale principio, l’appropriatezza prescrittiva prevista dall’art. 9 -quater, comma 1, del  D. L.. n. 78 del 2015 ed i parametri contenuti nel decreto ministeriale devono essere dunque intesi come un invito al medico prescrittore di rendere trasparente, ragionevole ed informata la consentita facoltà di discostarsi dalle indicazioni del decreto ministeriale.

Le disposizioni in tema di controllo di conformità alle indicazioni del decreto ministeriale non possono assolutamente escludere il libero esercizio della professione medica, ma costituiscono un semplice invito a motivare scostamenti rilevanti dai protocolli.                                                        

E’ costante orientamento della  Corte Costituzionale che “scelte legislative dirette a limitare o vietare il ricorso a determinate terapie – la cui adozione ricade in linea di principio nell’ambito dell’autonomia e della responsabilità dei medici, tenuti ad operare col consenso informato del paziente e basandosi sullo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche a disposizione – non sono ammissibili ove nascano da pure valutazioni di discrezionalità politica, e non prevedano l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali o sovranazionali – a ciò deputati”, né costituiscano “il risultato di una siffatta verifica”.

La Regione Liguria ha impugnato l’art 9-septies, commi 1 e 2, del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali. Disposizioni per garantire la continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del territorio. Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale nonché norme in materia di rifiuti e di emissioni industriali), come convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 125, in riferimento agli artt. 3, 32, 77, 97, 117, secondo e terzo comma, 118, 119 – anche in relazione all’art. 1, comma 398, lettera c), della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)” – e 120 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione.

La Regione Veneto ha impugnato, tra gli altri, gli artt. 9-bis; 9-ter, commi l, 2, 3, 4, 5, 8 e 9; 9-quater, commi l, 2, 4, 5, 6 e 7; 9-septies, commi l e 2, del d.l. n. 78 del 2015, in riferimento agli artt. 3, 5, 32, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., al principio di leale collaborazione di cui all’art.120 Cost., nonché all’art. 5, lettera g), della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale).

Secondo la Regione Liguria il comma l dell’art. 9-septies del d.l. n. 78 del 2015 ridurrebbe la spesa sanitaria, a partire dall’esercizio in corso, in una misura fissa (2.352 milioni di euro) e in via definitiva, prevedendo l’applicazione annuale del “taglio” di spesa senza limite di tempo.

La Regione Veneto premette che gli artt. 9-bis, 9-ter, 9-quater e 9-septies, del d.l. n. 78 del 2015, introdurrebbero una serie di tagli lineari alla spesa sanitaria, senza alcuna considerazione né dei costi e dei fabbisogni standard, di cui all’art. 8 della legge n. 42 del 2009 e agli artt. da 25 a 32 del d.lgs. n. 68 del 2011, né dei livelli di spesa delle Regioni virtuose e non terrebbero conto della forte disomogeneità del sistema della sanità regionale italiana, provocando, in tal modo, lo smantellamento del welfare sanitario. Secondo la ricorrente la modalità adottata dalla norma impugnata per risolvere il problema dei costi generati dalla cosiddetta “medicina difensiva” sarebbe gravemente lesiva dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, rimettendo ad un decreto ministeriale la definizione di ciò che risulta appropriato o meno; sostituendo le valutazioni del medico «con la complicata interpretazione di un sistema burocratico generalizzato»; lasciando del tutto esposti i medici del Servizio sanitario regionale alle sanzioni dell’amministrazione regionale o a quelle giurisdizionali. Ne deriverebbe una grave alterazione del rapporto tra medico e paziente ed il sistema sarebbe esposto al rischio di pregiudicare il diritto costituzionale alla salute, sia in termini di efficacia nei percorsi di cura, sia in termini di condizionamento dell’autonomia organizzativa della Regione e del buon andamento del Servizio sanitario regionale.

Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9-quater, commi 1, 2, 4, 5 e 6, del d.l. n. 78 del 2015, promosse dalla Regione Veneto in riferimento agli artt. 3, 32, 97, 117, secondo e terzo comma, Cost., nonché al principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., non sono fondate nei sensi e nei limiti di seguito precisati. La ricorrente, in sostanza, interpreta le disposizioni impugnate come il conferimento al decreto ministeriale di un potere impositivo nei confronti dei medici finalizzato all’adozione di standardizzati modelli di cura, i quali sarebbero lesivi dell’esercizio della professione medica e riverbererebbero tale effetto sulla cura dei pazienti e sull’autonomia regionale. In tal senso vengono lette le espressioni che demandano al decreto ministeriale l’individuazione delle condizioni di erogabilità e di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale, quelle che stabiliscono l’effettuazione dei controlli conformativi alle suddette prescrizioni e quelle che prevedono applicazione di sanzioni e responsabilità. Deve essere innanzitutto precisato che il decreto di cui al citato comma 1, il quale prevede le condizioni di erogabilità e le indicazioni di appropriatezza prescrittiva, ed il successivo comma 2, che pone a carico dell’assistito le prestazioni al di fuori delle condizioni di erogabilità, non vietano certamente al medico le prescrizioni ritenute necessarie nel caso concreto e non pregiudicano quindi la sua prerogativa di operare secondo “scienza e coscienza”. Peraltro, sullo specifico argomento dei limiti alla discrezionalità legislativa in tema di esercizio dell’arte medica, la giurisprudenza di questa Corte appare assolutamente congruente con l’attribuzione di un diverso significato alle disposizioni impugnate.

Così è stato più volte affermato il “carattere personalistico” delle cure sanitarie, sicché la previsione legislativa non può precludere al medico la possibilità di valutare, sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, il singolo caso sottoposto alle sue cure, individuando di volta in volta la terapia ritenuta più idonea ad assicurare la tutela della salute del paziente.

Alla luce di tale indefettibile principio, l’“appropriatezza prescrittiva” prevista dall’art. 9-quater, comma 1, del d.l. n. 78 del 2015 ed i parametri contenuti nel decreto ministeriale devono essere dunque intesi come un invito al medico prescrittore di rendere trasparente, ragionevole ed informata la consentita facoltà di discostarsi dalle indicazioni del decreto ministeriale.

In tale accezione ermeneutica devono essere intese anche le disposizioni in tema di controlli di conformità alle indicazioni del decreto ministeriale: esse non possono assolutamente conculcare il libero esercizio della professione medica, ma costituiscono un semplice invito a motivare scostamenti rilevanti dai protocolli.

È invece assolutamente incompatibile un sindacato politico o meramente finanziario sulle prescrizioni, poiché la discrezionalità legislativa trova il suo limite “nelle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali.

E’ costante orientamento di questa Corte che “scelte legislative dirette a limitare o vietare il ricorso a determinate terapie – la cui adozione ricade in linea di principio nell’ambito dell’autonomia e della responsabilità dei medici, tenuti ad operare col consenso informato del paziente e basandosi sullo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche a disposizione – non sono ammissibili ove nascano da pure valutazioni di discrezionalità politica, e non prevedano “l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali o sovranazionali – a ciò deputati”, né costituiscano “il risultato di una siffatta verifica”. La richiesta di chiarimenti al medico prescrittore e l’eventuale riduzione del trattamento economico accessorio deve essere intesa come rigorosamente riferita, non a mere elaborazioni statistiche sull’andamento generale delle prescrizioni, ma a fattispecie di grave scostamento dalle evidenze scientifiche in materia).