Come interpretare i risultati dei trial. Spunti dal NEJM

Bisogna formare una nuova classe di sperimentatori clinici e fondare centri di eccellenza

martedì 27 settembre 2016

AIFA: Il recente fallimento di sperimentazioni cliniche anche di Fase 3 riporta alla ribalta il tema della corretta progettazione degli studi clinici registrativi. Nonostante sia un requisito fondamentale per giungere a conclusioni che abbiano reale significatività statistica e rilevanza clinica ci sono pochi esperti su questo tema che siano davvero indipendenti e altrettanto competenti al mondo. Il nostro Paese non fa eccezione e, al di là della solita immancabile autoreferenzialità, pochi sarebbero in grado di interpretare i risultati in modo da trarre valore da un trial anche quando questo non abbia fornito risposta al quesito principale della ricerca (l’endpoint primario), ossia all'ipotesi che ha condizionato l’impostazione stessa della sperimentazione.

La risposta è quella che il trial è fallito, il che naturalmente è una possibilità ma è altrettanto possibile che lo studio in questione fornisca informazioni cliniche preziose o che dall’analisi complessiva emergano elementi utili per strutturare meglio, dal punto di vista metodologico, un nuovo studio.

Prendiamo spunto da un recente articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine, da Stuart J. Pocock e Gregg W. Stone[1], per cercare di capire come la corretta interpretazione dei risultati di un trial che non abbia soddisfatto l’endpoint primario possa evitare di cancellare lo sviluppo di farmaci potenzialmente molti utili per i pazienti.

Da tempo, anche nei comitati di consulenza scientifica europei, sosteniamo come Pocock e Stone che: “Etichettare tutti gli studi randomizzati come positivi o negativi sulla base del fatto che il valore della probabilità (“P value”) per l’outcome primario sia inferiore o meno a 0,05 è un approccio troppo semplicistico.” Tutte le malattie umane evolvono secondo livelli clinici di “spettro” e i valori statistici della P dovrebbero essere interpretati come inseriti all’interno di un continuum in cui tanto minore è il valore della probabilità, tanto maggiore è la forza dell'evidenza di un effetto reale del trattamento. Secondo questa visione gli intervalli di confidenza aiutano solo a identificare ilrange di incertezza sull’effetto stimato del trattamento e quindi l'interpretazione di un trial dovrebbe dipendere dalla totalità delle evidenze cliniche (primarie, secondarie, e dei risultati sulla sicurezza) e non solo dalla gerarchia statistica di un singolo endpoint misurato, magari, in una popolazione non precisamente caratterizzata.

Il mancato raggiungimento di un livello di significatività del 5% è certamente non promettente per il trattamento sperimentato. Tuttavia se questo fallimento avviene per poche frazioni decimali il ricercatore attento alla clinica ha il dovere di porsi una serie di interrogativi. Gli Autori dell’articolo ne suggeriscono alcuni su cui concordiamo: C'è qualche indicazione di un potenziale beneficio? Il trial è stato sottodimensionato? L'outcome primario, la popolazione, il regime terapeutico sono stati definiti in modo appropriato? Ci sono state carenze nella condotta del trial (ad esempio in termini di aderenza al protocollo di studio)? C’è un’affermazione di non inferiorità di valore? Sono emersi segnali positivi in un sottogruppo? Gli outcome secondari rivelano risultati positivi? Possono essere di supporto analisi alternative? Esistono evidenze esterne più positive? C'è un forte razionale biologico in favore del trattamento?

Solo se lo spirito è quello del vero sperimentatore clinico e non del ragioniere statistico le risposte a questi interrogativi possono guidare i ricercatori nei passi successivi. Tre sono le direzioni percorribili: “Rivendicare comunque il "successo", sulla base delle poche evidenze complessive (un'opzione che viene praticata raramente), progettare un trial futuro apportando significativi miglioramenti alla progettazione (un’opzione costosa), o accettare la probabilità che il nuovo trattamento sia inefficace (un'opzione frustrante) e cancellare l’intero piano di ricerca e sviluppo. Si dice che quest’ultima opzione valga globalmente il 40-50% della soppressione di sperimentazioni cliniche con farmaci potenzialmente anche molto innovativi in tutto il mondo.      

“Tuttavia, l'opzione migliore – concludono Pocock e Stone – è evitare del tutto questo scenario, attraverso una rigorosa pianificazione iniziale. Essere certi che vi siano evidenze di solidi fondamenti fisiopatologici e meccanismi d’azione comuni sia alla nuova terapia che alla malattia, selezionare i pazienti e gli endpoint appropriati, calcolare adeguatamente le dimensioni del campione, prestare particolare cura alla dose, alla definizione della malattia e degli outcome e all’intero iter procedurale, anticipare le ragioni di un potenziale fallimento e mettere in luce le criticità: tutto ciò aumenta le probabilità di giungere a conclusioni decisive”.

Bisogna formare una nuova classe di sperimentatori clinici e fondare centri di eccellenza che siano in grado di disegnare dei trial ben fatti per produrre risultati statisticamente significativi e clinicamente rilevanti. Evitare il cosiddetto attrito – ovvero la percentuale di fallimento - delle sperimentazioni è nell’interesse di tutti: dei pazienti che partecipano allo studio e che in questo modo non vedono vanificato il proprio contributo alla ricerca; di tutti gli altri pazienti che sono in attesa di poter accedere a nuovi farmaci efficaci; delle aziende che investono risorse e tempo non avendo certezze sul ritorno economico; dei ricercatori che si attendono conferme rispetto alle ipotesi di partenza; dei regolatori e dei pagatori che sono chiamati a garantire l’intero processo che porterà il medicinale in sperimentazione al paziente ad arrivare sul mercato in modo sostenibile perché – non sfuggisse a nessuno – i costi dei fallimenti vengono ribaltati e recuperati dal prezzo sempre più esoso dei pochi prodotti che riescono a farcela .

L’AIFA è stata, negli ultimi anni, l’Agenzia regolatoria che per prima ha evidenziato quanto sia fondamentale anticipare il dialogo con i pazienti, i ricercatori e le aziende sin dalle fasi precoci dello sviluppo di un farmaco, proprio a partire dalla progettazione della sperimentazione clinica. I dati dell’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA), in tal senso, confermano che la consulenza scientifica (Scientific Advice) fornita a monte del processo aumenta i tassi di successo e riduce i tempi complessivi e la portata delle obiezioni riscontrate in fase di valutazione dei dossier registrativi. Si tratta di uno strumento, certamente non l’unico, per sostenere lo sviluppo di farmaci efficaci, sicuri e di alta qualità, che tutela i pazienti preservandoli dal partecipare a studi clinici che hanno poche probabilità di portare all'approvazione di nuovi medicinali.

Leggi l'articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine